Lavoro e sviluppo sostenibile

Mia mamma quando aveva 20 anni lavorava e si è sposata. Quando è rimasta incinta, di comune accordo con mio padre, hanno deciso che lei poteva rimanere a casa, fare la casalinga e accudire i figli, mentre lui avrebbe lavorato, per due o per quattro se fosse stato necessario.

Entrambi si sono sacrificati per la famiglia: mia mamma per crescere mio fratello e me, rinunciando ad un po’ di sua indipendenza, mio padre lavorando anche la sera e i sabati, adorava il suo lavoro ma era anche un investimento per la famiglia.

Sacrifici, ma nessuno li ha mai vissuti come privazioni o come disuguaglianze sociali, anzi era il sogno di una vita che si realizzava: avere una casa, una famiglia.

Al giorno d’oggi no, tutto è disuguaglianza sociale quando non disparità di genere. Siccome la società è diventata più individualista, perché più veloce, allora marito e moglie DEVONO avere un’auto a testa, un cellulare a testa, magari vacanze divise, i propri spazi.

Allora a quel punto ci vuole anche uno stipendio a testa, su conti separati, ognuno con la sua carriera, la sua “dignità”.

Mi chiedo cosa ci sia di dignitoso e di equo in questa idea di famiglia che non è edificante come progetto comune, ma solo individuale.

Se ci si fa una famiglia per perseguire l’indipendenza ed equità individuale, allora tanto vale non intraprendere quella strada, ma anche questo è un fallimento sociale.

E se poi esce la statistica che nel 2020 le donne hanno perso il doppio dei posti di lavoro degli uomini il problema è la disparità di genere, non il valore del sacrificio per la famiglia.

Sacrificio che è di entrambi i generi: perché se è vero che la donna tipicamente è quella che più facilmente rinuncia al posto di lavoro per la famiglia, l’uomo è quello che ha la pressione di non doverlo perdere per la famiglia. Quindi NON È un problema di genere.

È un problema sociale: se anche dopo questo periodo pandemico non abbiamo capito che il famoso “cambio di paradigma” passa anche e soprattutto da questo, da un nuovo modo di intendere la società, perché nessuno si salva da solo, allora il problema è che non impariamo dalle esperienze.

Il problema non è che le donne hanno perso il doppio dei posti di lavoro degli uomini: quello è il risultato di una dinamica. Risolvere la questione dovrebbe partire da questo: non possiamo continuare a pensare che la famiglia sia un’accozzaglia di esperienze individuali.

Quindi può anche essere corretto che uno dei due genitori si dedichi alla famiglia, mentre l’altro alle risorse, ma nessuno deve perdere la propria dignità sociale che NON deve essere necessariamente riconosciuta nel posto di lavoro o dallo stipendio, ma “semplicemente” nel ruolo nella società.

Semmai quindi trovare delle misure sociali che garantiscano la dignità economica NONOSTANTE uno dei due genitori, ma anche entrambi alternandosi con una sorta di part-time (verticale o orizzontale), si occupi della casa e della famiglia, perché occuparsene non sia denigrante, vergognoso o poco dignitoso, anzi.

Io non reputo mia mamma sottomessa o discriminata perché ha fatto la casalinga tutta la vita e mio padre invece dominante o di successo perché si è spaccato la schiena lavorando: entrambi hanno fatto ciò che dovevano e desideravano per il loro progetto comune, con dignità ed orgoglio.

E questo deve tornare ad essere un valore per la società.

Questo è il cambio di paradigma, non tutte le volte cercare le differenze e voler rendere uguale tutto e tutti: una squadra, un team, un progetto, non arriva in fondo senza le necessarie, diverse, competenze e ruoli.

Facciamocela e facciamola finita con il fatto che OGNI cosa sia legata a disparità di genere. Ne va di tutti noi e meglio: del futuro della nostra società.

Passiamo da un’idea di dignità novecentesca basata esclusivamente sul lavoro, ad un idea che vada più verso il benessere della società: il COVID ha fatto risaltare anche questo, il bisogno di sviluppo sostenibile.

Il perché di uno Stato

Una cosa è certa in questo 2020: abbiamo dimostrato che tutti i nodi vengono al pettine.

La parabola della storia politica di uno Stato democratico sta arrivando ad un orizzonte mai immaginato probabilmente nemmeno nei peggiori incubi.

Questo Covid ha fatto solo da catalizzatore ma il problema comincia da lontano, decenni fa.
E la storia comincia anche prima.

La Storia

Convenzionalmente per gli storici la Storia Moderna si conclude nel 1848 e comincia la Storia Contemporanea: è la fine delle monarchie assolute e l’inizio della politica delle masse.
In molti stati europei si diffondono delle carte costituzionali, degli statuti: lo Stato non è più rappresentato da un’unica autorità ma da un insieme di istituzioni e da cariche elettive.
Si inizia quindi a configurare l’idea di democrazia moderna, di Stato moderno e quindi la gestione distribuita della “cosa pubblica”.
La società stessa cambia forma: nasce la classe operaia e la borghesia e con esse si sviluppa un nuovo patto sociale.

Siamo alla fine del XIX secolo e all’inizio del XX e si arriva quindi a definire diverse responsabilità pubbliche da parte dello Stato: non solo l’ordine e la difesa del territorio (compito del sovrano già dal Medioevo) ma anche l’istruzione, la sanità, l’assistenza e la regolamentazione del lavoro.

Il patto sociale

Il patto sociale sta proprio nel fatto che i privati cedano quote di questi oneri allo Stato, versando per questo delle tasse: significa quindi dire “dato che non devo pensarci io e lo fai tu Stato per me, ti pago il servizio”.

Scoppiano due guerre mondiali, con in mezzo una grande crisi economica e quindi a metà del XX secolo ci si ritrova quantomeno in Europa alla ricostruzione e in Italia alla nascita della Repubblica.

Già dagli anni 30 però il debito pubblico comincia ad accumularsi, e con esso anche le tasse (per semplificare chiamo “tasse” qualsiasi contributo richiesto dallo Stato al popolo).

Comincia a crescere, sotto traccia, la sensazione che non si paghi più per dei servizi ma semplicemente per mantenere lo Stato (inteso non solo come la macchina governativa, politici e personale, ma anche proprio la sua concezione): certo perché nel frattempo i vari governi che si succedono, sempre più strozzati dal cappio del debito pubblico aumentano ancora il debito e diminuiscono le spese (i servizi).

A quel punto però il famoso patto sociale, fondamento stesso della nascita dello Stato moderno, comincia a venire meno: se lo Stato non riesce più a garantire ciò per cui è stato formato, allora perché è stato formato?

L’attualità

Si arriva quindi all’attualità del 2020: la società si è evoluta a tal punto che c’è preponderanza di “società del benessere”: il terziario (o servizi) rappresenta i 2/3 dell’economia (e della società) dell’Italia.

Significa quindi che il patto sociale deve essere ancora più garantito e forte, perché la maggior parte del popolo del Paese vive grazie ad attività economiche che non sarebbero altrimenti autosufficienti.

Quindi le persone si sono fidate, si fidano dello Stato, inteso proprio come sistema che regge: grazie ai mercati (anche privati, ma garantiti da una diplomazia, da un ecosistema politico pubblico) e alla gestione pubblica di istruzione, sanità, polizia, ordine e giustizia, io privato posso permettermi di dedicarmi ad un’attività terziaria.

Se però a questo punto arriva un evento epocale, come potrebbe essere una pandemia, una causa di forza maggiore e lo Stato, in forza di quel patto, decide – anche grazie a contributi scientifici – che per preservare la sanità deve sospendere le attività economiche, allora deve dare un indennizzo.

Deve in altre parole ritornare quella quota parte ceduta dai privati verso il pubblico (la gestione della sanità) in cambio del fatto che dovevano solo preoccuparsi di lavorare e versare contributi.

Se io privato non posso (non devo) lavorare, allora tu Stato devi sopperire, altrimenti vieni meno a quel patto: e a saperlo prima allora potevo pensare che a me non conveniva e come a me a tanti altri, al popolo, e allora perché organizzarsi in questi “Stati moderni”?

Viene meno il fondamento.

L’insegnamento per il futuro

Il Covid ha fatto solo da catalizzatore, ma tutto è cominciato anni fa con l’aumento del debito pubblico: l’indebolimento dei fondamenti non era particolarmente grave (ma c’era) finché chiaramente non arriva l’emergenza, dove poi tutti i nodi vengono al pettine.

Occorre quindi davvero fare un bel respiro e tornare a comprendere perché nella storia, parte dell’umanità, diciamo quella democratica, abbia deciso di organizzarsi in questo modo e tornare a riapplicarsi in quell’ottica.

L’insegnamento del 2020 dovrà essere un ritorno alle basi: anche in ottica di green new deal, di sostenibilità e di decrescita felice cominciamo davvero a ripensare ai fondamenti, alle basi del perché abbiamo deciso di organizzarci così e facciamo in modo che abbia ancora un senso.

O tutto sarà inutile perché a quel punto o moriranno le persone o lo Stato con la società costituita.

La gestione della verità

Da anni sostengo che nella società moderna manchi un sistema per “gestire la verità”: non che ci sia mai stato, ma al giorno d’oggi l’informazione produce una mole di dati e sposta l’opinione pubblica come mai nella storia dell’Umanità.

Certo il tema è delicatissimo, perché rischia di sconfinare, se non essere frainteso, con una forma di censura.

Ma andiamo con ordine.

La Storia Contemporanea inizia, per convenzione, con la nascita della politica di massa e delle democrazie, e la diffusione in parallelo dell’opinione pubblica, a quel punto essenziale per il benessere stesso delle democrazie: se i tre Poteri dello Stato non dipendevano più da un’Oligarchia “eletta” per diritto divino, ma complessivamente dalle scelte del popolo, quel popolo doveva essere informato; siamo circa nel 1848.

Quindi la vera forma di potere, lo si capì meglio qualche decennio più tardi in realtà, diventò l’informazione.

Il problema è che ci si illuse che la buona informazione vincesse per definizione sulla cattiva informazione, che insomma per qualche “potere divino” o chissà cos’altro, più informazione corrispondesse alla lunga ad una giusta informazione.

Come in una sorta di selezione della specie (l’informazione) darwiniana.

Invece si vede, nei primi decenni del XX secolo, che per prendere il potere fai molto prima con la manipolazione dell’informazione, che con la sua limpidezza.

Perché la limpidezza funziona, allo scopo democratico, solo con la comprensione.
E la comprensione richiede impegno, è “difficile”.

Paladini di limpidezza

Compito del giornalismo, dei giornalisti, sarebbe è produrre – e vigilare – su questa limpidezza, che possiamo anche chiamare Verità.

Nello stesso contesto storico però succede un’altra cosa: lo sviluppo prima, e la vittoria poi, del capitalismo.

E attenzione: non è una critica la mia, ma un fatto.

Ad un certo punto quindi i giornalisti si sono ritrovati in uno spazio difficilmente condivisibile tra verità e capitalismo: è un lavoro e non è una vocazione, e tu hai un padrone (l’editore) e l’editore ha un interesse, un mandante.

Seguire i soldi, nel mondo capitalista diventa così un metodo d’indagine de facto (tipico, appunto, del giornalismo d’indagine).

Va da sé, quindi che non c’è più nessuno che vigila sulla verità.

E occhio che non si parla di censura: il confine tra battersi per la limpidezza e la censura è sottile; ma va riconosciuto: ne va dal valore stesso della democrazia.

Dire la verità non è né di sinistra, né di destra, così come non lo è dire menzogne: è semplicemente sbagliato e antidemocratico.

Non c’è democrazia senza verità, perché senza verità c’è manipolazione.

Se non c’è più chi vigila sulla verità chi lo deve fare?

È una bella domanda, e le possibili risposte generano davvero scenari al limite della censura: un organo terzo? E controllato da chi? E come si distingue la verità da un punto di vista? Soprattutto nel mondo contemporaneo dove spesso gli strumenti messi in gioco sono così complessi da essere derivati (e non certo derivati primi) che quindi, per definizione, spesso includono una volontà politica (sebbene non necessariamente partitica).

Certo è che quando lasci uno spazio vuoto, significa che qualcuno lo riempirà.

L’attualità

Arriviamo quindi ai giorni nostri: la politica, l’Europa.

Questa del COVID è solo l’ultima (in ordine cronologico) delle tre grandi crisi in qualche modo pandemiche, sebbene sia decisamente la più grave in termini di immediatezza: quella economica, l’immigrazione e questo nuovo coronavirus.

Gira falsa informazione (di cui le fake news sono solo una parte), girano polemiche, girano informazioni per manipolare l’opinione pubblica per fare consenso in barba alla salute pubblica, al bene pubblico.

Al di là infatti degli schieramenti politici, ora lo schieramento che dovrebbe più di ogni altro interessarci è quello del tavolo negoziale con l’unico “grande ente” che può aiutarci: ed è l’Europa, indipendentemente da come la si pensi politicamente.

Al massimo, il pensiero politico può servire per cambiare questa situazione una volta che ci saranno le condizioni (ammesso che convenga e abbia senso, ma è un altro discorso), ma la situazione ora è questa.

Obbiettivo strategico, di tutti, è quindi che la trattativa in Europa “vinca”: che si trovi una soluzione simmetrica.

Indebolire la tua parte (il tuo governo) in questo tavolo negoziale è distruttivo: non solo non è patriottico, è proprio tatticamente sbagliato (a meno che non si condivida l’obbiettivo strategico che ci siamo detti).

Se poi questo viene fatto con delle false notizie (la sera del 9 aprile rappresentanti di alcuni partiti ormai riferiti come “sovranisti” diffondevano nel web notizie secondo le quali il governo italiano avrebbe “appena firmato il MES”) è ancora peggio.

Chi vigila sulla verità, sulla limpidezza?

Nessuno.

Ma in Italia chi rappresenta, istituzionalmente e per parere spesso condiviso, una “terza parte”?

Il Presidente della Repubblica.

Ora: so che il concetto è forte, ma da mesi sostengo debba possa essere la sua istituzione ad occuparsene: almeno fin quando davvero non si istituisca un organo preposto.
Io lo dico da mesi, ormai forse anni.

Ovviamente può essere fatto SOLO per informazioni PALESEMENTE errate.

Dire che il 9 aprile 2020 il governo italiano ha accettato/firmato il MES è errato: e lo si dovrebbe dire proprio per non inquinare la democrazia ed il dibattito politico.

Si può fare politica di destra o di sinistra, ma non si può fare con informazioni errate.

Anche perché altrimenti succede che qualcuno te lo fa notare, ma rischia di essere qualcuno di parte (come se questo, tra l’altro, fosse di per sé un problema) e a quel punto è chi ha detto la menzogna che si appella alla stessa istituzione che deve garantire equilibrio e confronto democratico (il PdR, appunto) dicendo di intervenire.

E questo succede perché si è lasciati uno spazio vuoto: nessuno ha vigilato sulla verità.

Ma non può esserci democrazia senza verità, l’abbiamo già detto.

Così come abbiamo già detto che se lasci uno spazio vuoto, qualcuno lo riempie.

Il bivio: cultura o politica?

Quando fai parte di un partito come il Partito Democratico andarsene è sempre una sconfitta, a meno che il partito stesso non abbia tradito i suoi princìpi, e non pare questo il caso.

Non ho mai approvato chi l’ha fatto (D’Alema, Bersani, Civati, Calenda, Richetti, ecc…), e considerate che tre di questi non li apprezzavo nemmeno.
Non farò un’eccezione nemmeno per Renzi anche se, personalmente, ritengo abbia ragione e abbia fatto bene – per lui.

Ma il problema sta davvero tutto lì: se fai politica e sei nettamente migliore degli altri (Renzi oggettivamente lo è – o forse lo è stato), proprio per le tue qualità dovresti “sacrificarti” (ancora? Per il bene comune, sì: fare politica è questo).

Se invece preferisci fare cultura di sponda (scelta assolutamente condivisibile), allora semplicemente non lo fai “continuando a fare politica”.

“se vuole fare cultura politica è una cosa,
se vuole fare politica è un’altra”

Io non sono comunista e non mi riconosco nella sinistra troppo “spiccata” ma proprio per questo sto nel PD.
Quando sento intorno a me che partono i cori di “bella ciao” per me sono un simbolo di ciò che è stato, è memoria, e va bene.
Ma già “Bandiera Rossa” contiene ossimori tipo “evviva il comunismo e la libertà” e non ce la faccio.

Al di là degli scopi (che ripeto trovo anche culturalmente condivisibili e comprensibili) di “Italia Viva”, è sicuramente un errore strategico farlo da un altro partito, ed è stato un errore tattico farlo ora.

Ho sempre criticato chi vota (per esempio) +Europa perché non ha senso, al giorno d’oggi, essere in una forza di centrosinistra, condividere contenuti al 90% (se non al 100%) con il PD, ma essere in un altro partito: per me la vocazione maggioritaria è ciò che più conta.

Ora più che mai.

E non mi interessa (né convince) che è quello che fa la destra per vincere: li ho sempre criticati per quello, perché è “troppo comodo” avere tanti leader e partiti, poi però fare finta di essere tutti d’accordo, fare una coalizione alle elezioni e poi spaccarsi subito (l’abbiamo sempre visto noi nella nostra storia – con Bertinotti e non solo – e l’abbiamo visto anche nel recente governo giallo-verde, dove la Lega si è “smarcata facile” dalla sua stessa coalizione).
Che senso ha farsi beffa in questo modo del voto dell’elettorato?
Nessuno.

No, non è il mio modo di intendere la “buona politica”: quello che vuole fare Renzi ha il mio plauso, è una bella idea, ma fuori dalla politica, perché se sei senatore – o in generale un politico – è un errore strategico e dato che ha sbagliato anche il timing, è pure un errore tattico.

“è una bella idea, ma fuori dalla politica”

Errore strategico

Errore strategico perché sì può sembrare che sia “meglio per tutti” ma solo nell’immediato (vantaggio tattico): perché significa che ora nel PD ci saranno meno correnti e meno discussioni e che ognuno dei due partiti sarà più libero di fare quello che vuole/può fare.
Ma nello stesso spazio politico ora ci sono più partiti, quindi la coesione e funzionalità sono minacciate, il consenso pure, quindi sarà un vantaggio per l’altra parte politica (errore strategico).

Diciamo che, in generale, non è cosa buona prendersi un vantaggio tattico per uno svantaggio strategico, a meno che non sia proprio l’ultima battaglia (ma nessuno ha mai saputo, in tutta la storia, se quella che stesse combattendo fosse davvero l’ultima, sicché…).

Errore tattico

Ma poi c’è stato anche l’errore tattico: il timing ovvero, farlo ora.

Certo non lo poteva fare un mese fa, altrimenti si sarebbe andati davvero al voto (e sarebbe stato un errore strategico), però il problema è che lui aveva già in mente di farlo, lo si capisce dalla fretta che ha avuto nel farlo.

Insomma pensateci: tu hai in mente di fare il tuo partito, c’è un governo della tua parte politica avversaria in essere (giallo-verde), è luglio, tra tre mesi hai il decennale dell’evento che ogni anno promuovi e ti da grande forza, energia, idee (Leopolda); vento in poppa, non vedi l’ora.

E ti fanno la crisi di governo, con il rischio certezza, che se si andasse alle urne la parte avversaria faccia cappotto e per vent’anni di toccare palla non se ne parli, altro che decennale e proprio partito: al massimo la bocciofila.

Allora ricucisci la tua parte politica, crei una grande coalizione di governo, si istanzia, giuramento dei ministri e sottosegretari, e a quel punto ti smarchi finalmente ritornando al tuo progetto iniziale, con un solo mese di ritardo: fantastico.

Solo che a questo punto sei riuscito: hai ricucito, il centro-sinistra è più compatto, più unito e – anche se non si può dire perché il segretario è un altro – hai “ripreso” in mano il partito: la gente lo sa, te lo riconosce.

Ma no: ormai hai il tuo progetto. E allora niente. (cosa dicevamo di vantaggi tattici e svantaggi strategici? Ecco).

Quindi si è preso un vantaggio tattico, ma ha commesso un altro errore tattico: si elidono.

La formula

Aggiungo che ha sbagliato anche la formula: se vuole fare cultura politica è una cosa, se vuole fare politica è un’altra. Son due mestieri diversi.

Perché puoi anche avere ragione, ma se cambi contesto, a quel punto hai cambiato gioco e quindi le regole son altre.

Se pensi che il problema della politica italiana sia la metodologia (o le liturgie o le correnti) e quindi vuoi fare cultura politica, bene (tra l’altro sono pure d’accordo): ma non lo fai da un partito.

Se vuoi fare cultura politica allora ti dimetti, lasci davvero la politica, e fai un altro lavoro: l’intellettuale, il politologo, l’opinionista, il filosofo, lo scrittore, organizzi convention, quello che vuoi, ma non lo fai DA un partito, non lo fai DALLA politica, IN politica.
Se fai politica sei nell’arena, con gli altri, non pontifichi su regole, su chi dovrebbe fare cosa, non fai l’arbitro e nemmeno il telecronista: sei giocatore e come tale fai parte dello spettacolo, non fai opinione, non dai giudizi.

Insomma, un po’ pretenzioso fare cultura politica, fare collettore di idee politica entusiasta e giovane, ma cominciare con errori: strategico, tattico e di formula e farlo da un partito di nicchia staccandosi da uno a vocazione maggioritaria.

E allora il PD?

Il mio partito per ora – e sottolineo per ora – rimane il PD che comunque deve “darsi una svegliata”.

Eh sì, perché c’è il tema che per me è più cruciale: non interessa cosa farà Renzi, a me interessa capire cos’è (cosa sarà) il PD senza una figura come la sua.

Perché se tornano certi dinosauri e ci si chiude in politiche di sinistra d’altri tempi, convinti che siano quelle che funzionano perché hanno funzionato cinquant’anni fa – mentre ora siamo completamente in un’altra epoca – non lo so proprio se il PD non tradisca i propri princìpi.

E a quel punto sì, mi darò completamente alla cultura (anche politica) ma di certo non lo farò da un partito.

I “buoni” partiti

Che voglia di buona politica di destra.

No, non sono diventato matto, credo davvero in quello che ho detto.

Da troppi anni lo scontro politico è rimasto, a parole, tra destra e sinistra, ma il problema è che nei fatti è completamente un’altra cosa.

Io davvero non ne posso più, da cittadino, di non avere scelta.

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